
Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano).
(Antoine de Saint-Exupéry)
Essere una figura eccessivamente autoritaria può mettere a dura prova il rapporto genitore-figlio.
Se sei troppo severo ed esigente tuo figlio finirà per vederti come un maestro rigido e inflessibile piuttosto che un mentore comprensivo.
Man mano che tuo figlio cresce, ascolterà i tuoi consigli solo se esiste una relazione genitore-figlio basata sul rispetto reciproco, in caso contrario ti lascerà fuori dalla sua vita personale.
E’ dunque importante moderare le tue richieste nei suoi confronti e rimanere in contatto con lui.
La maggior parte delle persone pensa che i figli di un’educazione rigida si comportino meglio mentre le ricerche sulla disciplina dimostrano che un’educazione di questo genere (rigida e autoritaria) porta a sviluppare una bassa autostima.
Inoltre, limiti rigidi innescano una certa resistenza ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
Se tu imponi il tuo volere con la forza, loro fanno quello che vuoi tu perché ti temono. Questo non è molto diverso dal bullismo.
I bambini imparano dalle proprie esperienze e dall’esempio: se urli, urleranno. Se usi la forza, useranno la forza.
Forse imparano a obbedire, ma non imparano a pensare da soli.
Più avanti nella vita, non metteranno in dubbio l’autorità anche quando sarà necessario.
Gli studi dimostrano inoltre che i bambini cresciuti con uno stile genitoriale intransigente tendono ad essere più arrabbiati e ribelli da adolescenti e adulti.
“Non parlare con la bocca piena, non mettere i gomiti sul tavolo, non disegnare sui muri, non urlare, non correre in casa, non rispondere male, non uscire, non camminare scalzo!”
Le regole dovrebbero servire a proteggere e a indicare al bambino la giusta strada da seguire, ma se sono troppe finiscono per sopprimere ogni sua iniziativa e privarlo di ogni forma di libertà.
Spesso trattiamo i nostri figli come piccoli adulti mentre non bisogna mai dimenticare che sono solo bambini.
A questo proposito ti lascio alle parole toccanti di W. Livingston Larned nel suo Father forgets:
Ascolta, figlio: ti dico questo mentre stai dormendo con la manina sotto la guancia e i capelli biondi appiccicati alla fronte.
Mi sono introdotto nella tua camera da solo.
Pochi minuti fa, quando mi sono seduto a leggere in biblioteca, un’ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto.
E stavo pensando a queste cose: ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamano sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe. Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.
A colazione, anche lì ti ho trovato in difetto, hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo, hai spalmato troppo burro sul pane.
Quando hai cominciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato: “Ciao papino!” e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: “Su diritto con la schiena!”
E tutto è ricominciato da capo nel tardo pomeriggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare alle biglie e si vedevano le calze bucate. Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoti a casa davanti a me. Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura.
Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell’offesa subita?
Quando ho alzato gli occhi dal giornale, impaziente per l’interruzione, sei rimasto esitante sulla porta. “Che vuoi?” ti ho aggredito brusco.
Tu non hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue braccine mi hanno stretto con l’affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai. Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale.
Be’, figlio, è stato subito dopo che mi è scivolato di mano il giornale e mi ha preso un’angoscia terribile. Cosa mi sta succedendo? Mi sto abituando trovare colpe, a sgridare; è questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto? Non che non ti volessi bene, beninteso: solo che mi aspettavo troppo dai tuoi pochi anni e insistevo stupidamente a misurarti col metro della mia età.
E c’era tanto di buono, di nobile, di vero, nel tuo carattere! Il tuo piccolo cuore così grande come l’alba sulle colline. Lo dimostrava il generoso impulso di correre a darmi il bacio della buonanotte. Nient’altro per stanotte, figliolo. Solo che son venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergogna.
È una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio. Ma domani sarò per te un vero papà. Ti sarò compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti. Continuerò a ripetermi, come una formula di rito: “è ancora un bambino, un ragazzino!”.
Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo. E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire se sei ancora un bambino. Ieri eri dalla tua mamma, con la testa sulla sua spalla.
Ti ho sempre chiesto troppo, troppo.